Il vento dello sperimentalismo psichedelico sembra soffiare ancora forte – e non è solo una metafora – sin dai primi solchi di questo 6° disco dei Pink Floyd, (il 5° se si contano esclusivamente gli album, il 7° contando, oltre all’antologia “Relics”, anche i 3-8 brani composti per “Zabriskie Point”). In realtà, è vero che i primi anni ’70 produssero ancora eccellente pop-rock classificabile come psichedelico, ma è altrettanto vero che, nel nuovo decennio, la psichedelia inglese perse ogni residuo contatto con quella americana, soprattutto con le sue radici politiche e contro-culturali, assumendo un carattere sempre più estetizzante e accessorio, quando non riducendosi a citazione stilistica, a espediente cosmetico.
Una cosa è certa: uscito il 30 ottobre 1971, “Meddle” chiude il periodo psichedelico dei Pink Floyd e al tempo stesso il periodo classico della psichedelia inglese. Già dal successivo “Obscured by Clouds” (1972), il sound dei Pink Floyd smette di essere psichedelico pur continuando a essere altamente sperimentale e non diventerà mai – checché se ne dica – veramente progressivo, almeno non nello stesso modo in cui lo era quello dei King Crimson o dei Genesis (soltanto i Van Der Graaf Generator di “H to He” e soprattutto di “Pawn Hearts”, espressero, nell’area del progressive classico, sonorità assimilabili per spazialità e profondità a quello dei Floyd, ma la musica delle due band ha fondamenti e struttura significativamente diversi).
“Meddle” fu ben accolto dal pubblico e dalla critica, che ne apprezzò soprattutto la forza evocativa, la maggiore maturità e omogeneità di stile rispetto al precedente “Atom Heart Mother” (1970). Tra le tante lodi («un album eccezionale!» – New Musical Express, ott. ’71; «“Meddle” … afferma con forza e accuratezza che il gruppo è di nuovo sulla via della maturazione» – Rolling Stone, genn. ’72) non mancarono, però, autorevoli critiche all’uso barocco – leggi: eccessivo e tutto esteriore – dell’effettistica («una serie di effetti senza profondità; interessanti, persino belli, forse, ma in fin dei conti superficiali, come i rumori di fondo in un radio-dramma. Quando c’è poca vera sostanza musicale a supporto, come può il risultato essere qualcosa di diverso dalla colonna sonora di un film inesistente?» – Melody Maker, nov. ’71) e all’inconsistenza di uno «space rock» meno realmente innovativo di quanto sembri (meno «adventurous», proprio nell’uso degli effetti, rispetto al contemporaneo “Zero Time” dei Tonto’s Expanding Headband, ad es. – Ibidem). Oggi si parla di “Meddle” (v. Meddle: Classic Album Under Review, dvd 2007) come di un grande album oscurato dal successo enorme di “The Dark Side of the Moon” (1973) del quale anticipa certi temi e soluzioni stilistiche. Ciò è in parte vero, ma due osservazioni s’impongono: 1) è “Obscured by Clouds” l’album che “The Dark Side” oscura più di ogni altro (sin dal titolo, si può dire) e che apre una fase nuova nel sound dei Pink Floyd, ferma restando la qualità inferiore rispetto a “Meddle”; 2) i Pink Floyd erano soliti rielaborare il materiale nuovo che producevano nel corso degli anni; parte di quello confluito in “The Dark Side” risale alle session per “Zabriskie Point” (addirittura alla fine del ’69) quindi non soltanto è scontato che “Meddle” contenga idee sviluppate dal ’73 in poi, ma stupirebbe se così non fosse. In ogni caso, se si considera “Meddle” un classico della tarda psichedelia inglese è perché, evidentemente, chiude una vecchia fase piuttosto che aprirne una nuova. È fuori discussione, tuttavia, che si tratti di un disco cruciale nella storia dei Pink Floyd e che, pur conservando stretti legami con la sperimentazione psichedelica (per certi versi anche più ardita) di “Atom Heart Mother”, apra effettivamente la strada a un sound più definito e godibile, meno astratto ma non meno ambizioso.
Quando, all’inizio del ’71, entrarono negli studi di Abbey Road per registrare il loro nuovo album, i Pink Floyd sapevano soltanto di dover realizzare qualcosa che superasse o quanto meno eguagliasse l’inaspettato successo di “Atom Heart Mother”. Nel contempo, specie dopo il successo di “Atom”, bisognava rafforzare la costruenda immagine della band cosmica e mistico-visionaria per eccellenza continuando a sorprendere un pubblico che dai Pink Floyd si aspettava ormai sempre qualcosa di straordinario e meraviglioso, senza ricadere in quelli che Nick Mason definì l’anno seguente «very dangerous Pink Floyd clichés» (v. l’intervista a New Musical Express del nov. ’72, dove il batterista cita come es. l’estenuante dilatazione di tempi lenti in quarti e la ripetizione «fino alla morte» di temi o cori su tempi differenti). Che i Floyd non avessero davvero idea di cosa sarebbe venuto fuori, lo attesta, inequivocabilmente, il titolo provvisorio che diedero al nuovo progetto musicale, “Nothings, pts. 1-24”, sviluppato poi in “Meddle”, che a prima vista non sembra un titolo evocativo: il verbo inglese to meddle deriva dal francese antico medler (cfr. il sostantivo medle), a sua volta dal latino volgare *misculare (miscere), e vale sin dal Medio Evo tardo “occuparsi, interessarsi di” ma ha assunto la sfumatura negativa di “immischiarsi, essere invadente o importuno”; secondo qualcuno (v. Schaffner) sarebbe invece «un gioco di parole alquanto debole tra “medaglia” [medal] – ciò che si porta per aver conquistato qualcosa – e “interferire”». È del tutto evidente che non si tratta di un titolo la cui forza e immediatezza evocativa possa lontanamente paragonarsi a quelli di altri album dei Pink Floyd più o meno leggendari (come “The Dark Side”, “Atom” oppure “Animals”). Tutt’al più, si può mettere in relazione il significato etimologico di “Meddle” con l’inizio della svolta tematica per la quale i Pink Floyd si concentrarono sempre più, nella loro fase classica, sui temi dell’alienazione, dell’incomunicabilità e del rapporto tra individuo e società. Questa interpretazione risulta meno forzata se si analizza “Meddle” come una sequenza non casuale di brani, incardinata su temi affini o collegabili tra loro, benché sia di fatto “Echoes” l’unico brano indicato plausibilmente come anticipatore della ricerca concettuale e sonora intrapresa dai Pink Floyd con “The Dark Side”.
Sin dalle prime note, il basso con Binson Echorec (antesignano di fabbricazione italiana degli odierni Delay, funzionante a bobina e filo magnetico), suonato eccezionalmente da Gilmour, imprime un ritmo incalzante, che si fa ossessivo quando – alla battuta seguente – si aggiunge un secondo basso, suonato da Waters, e si crea l’impressione di un crescendo minaccioso. Il ritmo è scandito da due note di organo Hammond o Farfisa accoppiato con un crescendo di piatti pre-registrato e mandato al contrario (utilizzando verosimilmente lo Swell Pedal dell’organo o un Mellotron). L’irruzione della chitarra slide distorta e del primo fill di batteria annunciano la seconda parte, in cui il basso passa dall’effetto eco al vibrato (ottenuto collegandolo a un amplificatore H&H). Ed è sempre il basso a fare da filo conduttore e da base ritmica del pezzo con il vibrato che crea l’impressione di terzine molto strette, mentre la musica si dilata, tocca il suo apice visionario tra gli echi inquietanti del Binson su chitarra slide (una pedal steel?) e il risuonare caotico della batteria. Le uniche parole pronunciate, con voce distorta, da Nick Mason danno anche il titolo a quello che resta altrimenti uno strumentale: «One of These Days I’m Going to Cut You into Little Pieces» (il titolo compare regolarmente abbreviato a “One of These Days” nell’album ufficiale, mentre i bootleg riportano spesso la forma integrale o una forma di compromesso con le parentesi “One of These Days [I’m Going to…]”). Analogamente all’urlo di Waters in “Careful With That Axe, Eugene” e in “Come in Number 51 (Your Time is Up)”, la minaccia di Mason prelude all’esplosione del pezzo nella terza e ultima parte, dove riprende il riff portante del basso, accompagnato da un vigoroso shuffle dello stesso batterista e dalle note laceranti della chitarra di Gilmour, con cui l’eco della furia psichedelica finisce nel vento, così come com’era iniziata.
Dallo stesso vento, emergono i delicati arabeschi di chitarra acustica slide in “A Pillow of Winds”, il secondo brano, tutto giocato su atmosfere eteree e minimaliste, con tastiere avvolgenti e una linea di basso essenziale, di poche note calde e pastose (che Gilmour arricchì con un basso fretless). Niente di più lontano, comunque, dal ritmo martellante di “One of These Days”, dalla sua violenza ancestrale. “A Pillow” echeggia i momenti più psichedelici dei primi Traffic o Crosby, Stills, Nash & Young e apre una sequenza di 4 brani prevalentemente acustici, differenti per genere ma omogenei per stile e atmosfera. “Fearless” sposta il tema dalla tipica snugness floydiana dell’idillio intimista di “A Pillow” alla sfida della crescita e del confronto tra l’individuo e la massa; il tutto costruito su un tema folk brillante e conciso, non particolarmente originale ma concluso con un tocco di sperimentalismo che lo rese memorabile: la registrazione di “You’ll Never Walk Alone”, coro dei tifosi del Liverpool. L’idea di inserire qui un così popolare inno da stadio fu probabilmente suggerita dal tema di questo e dal fatto ch’esso evoca una folla di fronte alla quale l’individuo – secondo qualcuno una prima rappresentazione di Syd Barrett – rischia di smarrirsi («Fearlessly the idiot faced the crowd, Smiling … And as you rise above the fear-lines in his brow, You look down, hearing the sound of the faces in the crowd»). “San Tropez” è un brano jazzato, gradevole ma alquanto convenzionale, che Waters (è l’unico accreditato a un membro solo della band) dedicò all’omonima località francese tratteggiando nel testo un bozzetto della vita fatua e alienante che il jet-set internazionale vi conduceva (la richiesta più volte ripetuta «If you’re alone, I’ll come home» suona volutamente ipocrita e distante). “Seamus” è uno slow blues acustico per chitarra slide, piano e… cane. Vale per questo blues il discorso già fatto per il folk-rock di “Fearless” e cioè che si tratta di un brano non molto originale in sé e per sé a cui i Pink Floyd aggiunsero un tocco sperimentale ma stavolta anche ironico, l’eponimo meticcio Seamus come seconda voce. Il cane, affidato temporaneamente a Gilmour, apparteneva a Steve Marriott, cantante degli Humble Pie e prima degli Small Faces, in contatto con i Pink Floyd tramite il batterista Jerry Shirley band mate di Gilmour nei Jokers Wild (la versione di “Live at Pompeii”, la strumentale “Mademoiselle Nobs”, non presenta lo stesso cane e infatti prende il nome dal levriero russo di proprietà di un circo). “Seamus” è uno dei brani meno amati dell’intera produzione Pink Floyd, ma resta un blues ben suonato per quanto semplice, in cui Wright e Gilmour riescono abbastanza concreti ed efficaci.
“Echoes” è la lunga suite che occupava l’intera seconda facciata del disco. Waters la definì, con felice scelta di termini, «un epico poema sonoro». L’inizio non è meno celebre di quello di “One of These Days”: una nota di piano a coda, filtrata attraverso microfono eco e amplificatore Leslie a tromba rotante per Hammond, crea quel magistrale effetto-abisso, che fa sembrare il suono prodotto sott’acqua o in una grotta (la particolare risonanza evoca immediatamente un sonar o una goccia che cada da una stalattite). La dimensione primordiale che “One of These Days” proiettava sull’ascoltatore in un’esplosione di furia ancestrale portando alla superficie le profondità più remote e inconsce ma anche distruttive e asociali dell’Io, viene rappresentata, qui, con il movimento inverso, dalla superficie verso l’abisso. Dopo l’astratta convenzionalità delle situazioni sociali tratteggiate tra “A Pillow of Winds” e “San Tropez” (volendo definire “Seamus” uno scherzo, non una variazione sul tema della snugness, il sentimento “d’intimità e conforto che deriva dallo stare in casa o in altro luogo proprio, congeniale e sicuro”), il tema – pur sospeso nella vaghezza del sogno – diventa la comunicazione, l’accettazione dell’altro come chiave per riemergere dal caos, per dare un senso al sublime. Musicalmente, “Echoes” può considerarsi il momento più visionario e psichedelico di “Meddle”, forse in assoluto dei primi anni ’70, e mostra tutte le radici rytm&blues che caratterizzarono il sound dei Pink Floyd dalle origini anche rispetto al progressive “vero e proprio”, le cui radici erano piuttosto jazz seppure contaminate con il folk revival e la musica colta, classica e/o contemporanea. La suite si sviluppa in almeno 4 movimenti, che il testo descrive senza seguirli:
1) la nota del piano a coda introduce uno slow blues ipnotico, molto giocato sulla stratocaster cristallina di Gilmour – il testo descrive con pochi tratti uno scenario marino; è icastica la descrizione dell’eco, che «giunge tremolante da un tempo lontano» («Overhead the albatross hangs motionless upon the air And deep beneath the rolling waves, In labyrinths of coral caves, The echo of a distant time Comes willowing across the sand, And everything is green and submarine»);
2) l’acido solo di chitarra immette a un funk brutale, giocato sul precision di Waters e sull’Hammond di Wright, con un Mason tetragono ed efficace: sotto il profilo ritmico, uno dei momenti migliori di tutta la produzione Pink Floyd;
3) pian piano il ritmo poderoso del funk si dissolve in un caos sonoro; è la vera catabasi di “Echoes”: echi sinistri fanno da sottofondo col gracchiare di corvi e alcune note di organo; acuti laceranti di chitarra evocano il verso di uccelli marini o il canto di cetacei (il sottofondo fu ottenuto facendo scorrere lo slide sulle corde del basso collegato al Binson e la stessa combinazione eco-slide fu usata per ottenere i versi d’uccelli, solo che stavolta fu aggiunto – piuttosto casualmente, sembra – un pedale wah-wah reverse, ossia a collegamenti input-output invertiti);
4) la solenne progressione di accordi portata dall’organo e scandita dal muting martellante della chitarra esce dal caos primordiale (come dire: dopo la catabasi, l’anabasi) evocando l’immagine di un sole che sorge o di una risalita verso la luce, fino al tripudio di quattro splendenti chitarre in arpeggio; il ritorno al tema blues iniziale, ma l’impeto dell’inciso si dissolve tra il morbido fraseggio bluesistico della chitarra e le scale del piano, su un tappeto di Farfisa a cui si sovrappone un effetto cori (Mellotron?) riproducente una scala Shepard (l’andamento è ciclico ma l’effetto è ascendente) – tutti i movimenti intercorsi dal 1° sono strumentali; nell’ultima strofa del 1° movimento («Estranei passanti per la strada, Casualmente due sguardi separati si incontrano, Ed io sono te e ciò che vedo sono io, E ti prendo per mano, E ti guido attraverso il paese, E aiutami a capire per quanto posso») si è voluta ravvisare un’anticipazione dei temi divenuti centrali nella fase post-“The Dark Side”; si osservi, però, che la ripresa del cantato riporta il testo al tipico idillio psichedelico già vagheggiato in “A Pillow of Winds” («Serena [cloudless], ogni giorno cadi sui miei occhi che si risvegliano, Invitandomi e incitandomi ad alzarmi, E attraverso la finestra sul muro, Entrano fluttuando su ali di luce, Milioni di luccicanti messaggeri del mattino»); nella strofa finale echeggia, tuttavia, un senso di solitudine e di perdita, una nostalgia per l’infanzia e i tempi felici ormai passati, che percorre l’intera storia dei Pink Floyd dai tempi di Barrett («E nessuno mi canta ninne nanne, E nessuno mi chiude gli occhi, E spalanco le finestre, E ti chiamo attraverso il cielo»).
“Meddle” è, insieme a “Atom Heart Mother”, l’album più importante della fase post-Barrett e pre-“The Dark Side” dei Pink Floyd e contiene due dei loro brani, in assoluto, più rappresentativi (“Echoes” e “One of These Days”). Spesso descritto come un album di transizione, “Meddle” è, in realtà, soprattutto il canto del cigno della psichedelia inglese. Già con “Atom”, i Pink Floyd avevano spinto il pop rock psichedelico oltre i limiti finendo per celebrarne il trionfo e testimoniarne, al tempo stesso, la crisi. È noto che, nell’elaborazione del nuovo album, i Pink Floyd seguirono solo parzialmente la falsariga del sound che avevano sviluppato dalla fine del 1969 a tutto il 1970 (in “Zabriskie Point” e in “Atom Heart Mother”, per intendersi). Tra le possibili spiegazioni – più o meno esplicitate dai membri della band – se ne possono indicare almeno 3: 1) l’oggettiva difficoltà a sviluppare ulteriormente l’esperimento di contaminazione con la musica concreta e sinfonica; 2) l’insofferenza per il cliché psichedelico di cui Waters & Co. si sentivano sempre più prigionieri, ma soprattutto 3) la maturazione artistica e l’aspirazione a sperimentare nuove soluzioni musicali e affrontare tematiche più complesse (a questa evoluzione non dové essere estranea l’influenza del nascente progressive, che aveva aperto la strada a una sperimentazione meno ingenua). Sotto tali rispetti, “Meddle” deve considerarsi un esperimento parzialmente riuscito. Non solo è un disco ancora squisitamente psichedelico – e largamente ricalcato su “Atom”, quantunque «con melodie molto molto migliori e meno ciarpame» (v. Easlea, BBC Music 2007) – ma sia compositivamente sia tematicamente costituisce tutto sommato un’evoluzione appena apprezzabile rispetto al 1969-’70. Certo, il riassorbimento parziale (che tale resterà) della sperimentazione estrinseca, essenzialmente orchestrale e concrète, in una sperimentazione intrinseca, ovvero nella gamma di suoni ottenuti dagli strumenti mediante amplificazione ed effetti, non è cosa trascurabile e inverte una tendenza iniziata almeno con “Ummagumma” (1969), ma si definirà appieno solo nel 1972, con “Obscured by Clouds”.
L’idea che “Meddle” rappresenti «la nascita dei Pink Floyd come noi li conosciamo oggi» (v. Easlea, Ibidem) è frutto di un’errata prospettiva, che proietta all’indietro l’ombra dei colossi “The Dark Side of the Moon” e “Wish You Were Here” rischiando di nascondere un passaggio significativo nella storia della band e del pop-rock in genere. Anzi, a rigore sarebbe azzardato anche dire che, nel 1971, i Pink Floyd chiusero la loro splendida fase psichedelica, dal momento che “Meddle” – anzitutto per l’inatteso successo commerciale di “Atom Heart Mother” – resta legato a quella fase e lascia appena presentire l’inizio di una fase nuova, post-psichedelica. A riprova del fatto che i Pink Floyd restavano una band simbolo della psichedelia, va ricordato inoltre che la scaletta dei loro concerti cambiò poco perlomeno fino alla fine del 1972; continuò, cioè, a essere largamente incentrata sul materiale di “Meddle” e precedente fino a che questo non iniziò a essere sotituito da versioni provvisorie di quello di “The Dark Side” e in minima parte da quello di “Obscured”. Era naturale che i Pink Floyd, a quel punto della loro storia, sentissero l’esigenza di esplorare nuovi territori, tuttavia, causa anche le limitate capacità di esecuzione, i fondamenti della loro musica restarono invariati (senz’altro semplificando: il rythm&blues, l’acid blues venati di sperimentalismo post-psichedelico) e sostanzialmente invariata restò anche la distanza dal progressive vero e proprio. Piuttosto, si rese necessario sviluppare il sound espresso tra “Zabriskie Point” e “Meddle” in qualcosa di più coeso, di meno spontaneistico e irrazionale. Con “Meddle”, anche l’ultima eco della rivoluzione psichedelica – una rivoluzione se non altro musicale – gradualmente si dissolve lasciando il posto a uno stile psichedelico, di cui gli stessi Pink Floyd diventeranno magistrali testimoni.
indicazioni bibliografiche essenziali:
G. Radice, “Pink Floyd”, 1982 (Gammalibri)
B. Carruthers, “Pink Floyd. Uncensored on the record”, 2011
N. Schaffner, “Saucerful of Secrets: The Pink Floyd Odissey”, 1991
http://www.bbc.co.uk/music/reviews/wnbd
Una breve guida all’ascolto:
BBC Tape di “One Of These Days” ante incisione (30 sett. ’71), con un Mason particolarmente energico e la minaccia di “tagliarvi a pezzetti” inserita alla fine del brano:
un esempio di Shepard Scale (scala ad effetto infinito):
l’amplificatore Leslie per organo:
filmato illustrativo in italiano sul Binson Echorec: